Mi piace andare in montagna, adesso con una certa pigrizia, data l’età che avanza. Mi piace sedermi sull’erba, guardare il panorama con fare ieratico e dar da intendere che ho capito un sacco di cose sulla vita quando, invece, sono ai blocchi di partenza. Un tempo ero una sorta di stambecco coi pantaloni corti e le ginocchia sbucciate, di quelli avventurosi e spericolati.
La montagna è una palestra di vita, è tutta una metafora. Una strada di montagna è com’è, e siamo noi a percepirla erta se saliamo o comoda se scendiamo. Comoda, poi… provate a scendere a piedi cinque ore di fila e vediamo cosa vi dicono le gambe! La montagna, per il suo aspetto sacrale o perché ci regala ossigeno per poi rubarcelo velocemente dai polmoni, finisce per imporci il silenzio e ci lascia soli a noi stessi, a percepirci piccoli al fianco di rocce imponenti e, al contempo, enormi per quell’impagabile sensazione di essere in pace con ciò che ci circonda e così vicini al cielo. Vivere la montagna in compagnia è impagabile, ivi compresa la particolare dieta ipercalorica che ci si può godere a 2000 metri che tanto a marciare si brucia tutto. Però, lasciatemi dire, ci dovrebbe essere sempre un momento nella vita in cui si decide di concedersi una camminata in solitudine, ma mica una troppo semplice. Io ho avuto la fortuna di potermi affrontare ad una giovane età; affrontare me stesso, sì, perché la montagna è lì, ed è com’è, e tu sei l’unica variabile.
Allora finisce che se hai voglia di parlare non c’è nessuno ad ascoltarti; che puoi comprendere a che altezza ti trovi semplicemente osservando le piante che hai intorno; che se non ti sei portato dietro abbastanza cibo o liquidi o il golfino giusto, la macchina meravigliosa che è il tuo corpo che dai per scontata in città s’ingrippa; che ogni cosa ha un suo suono e ogni suono ha un suo motivo di essere; che se oserai spingerti oltre il percorso e farti vincere dalla conoscenza e dalla curiosità come Ulisse, il ritorno sarà un inferno di fatica in più. Vi confesserò che una delle più profonde emozioni vissute risale alla volta in cui, sbarbato e piacevolmente incosciente, all’incirca sulla sommità di un monte, decisi di scendere da un crinale con l’idea assolutamente infondata di ritrovare poco sotto il percorso battuto. Non lo trovai. Accadde, così, che mi persi ed erano gli anni senza cellulare. Ci misi la bellezza di quattro ore per uscire da quell’avventura, attraversando tutta una serie di terreni in discesa perché l’unica cosa che mi era chiara è che la salvezza si poteva trovare solo in fondovalle; lì qualcosa avrei trovato, fosse stata anche una di quelle famiglie isolate e cannibali dei film d’orrore. In alcuni momenti, mentre continuavo a scendere, sentivo che lo sconforto saliva e sarebbe stato facile fermarsi, piangere (cosa che un po’ ho fatto, diciamolo) e, chessò, appiccare un incendio per farmi notare; avrei dovuto subire un processo ma sarei sopravvissuto. Già, pensai anche a questo; perdetevi in montagna e vedrete che la vostra mente diverrà disperatamente creativa. Arrivato alla meta, non dissi nulla ai miei genitori che, semplicemente, mi ripresero perché avevo fatto tardi e avevo gambe e braccia piene di graffi; lì per lì inventai storie d’inciampi. In cuor mio ringraziai per una certa educazione spartana ricevuta, tale per cui si combatte e non si lascia indietro nessuno, compresi noi stessi. Senza arrivare a tanto rischio, e senza nulla togliere alla relazione, imparate qualcosa per voi e tramite voi stessi. Incontrerete tanti buoni maestri, e pessimi: apprendete tutto ciò di cui necessitate ma non dimenticate che, in fin dei conti, l’unica guida che vi accompagnerà per tutto il percorso siete voi. Disce ut vivas.