Quante volte, dopo una relazione finita malissimo, ci diciamo: “Devo imparare ad essere più duro, ad amare prima di tutto me stesso!”. Frase che, in ambienti più informali, si sintetizza in: “Devo diventare più stronzo!”. Gli amici, nel bonario tentativo di farci empowerment, ci fomentano e gridano SI’ come personal trainer che ci volessero portare alla prossima competizione di MMA in stato di brutale trance agonistica. Male, malissimo. Al di là dell’ossimoro implicito fra l’amare più se stessi e l’essere più duri, è bene sapere che diventare più stronzi o egoisti, cioè divenire peggiori, non può essere l’ottimale per voi né per la società, così come nessuno che subisca un furto in casa dovrebbe apprendere da questa sgradevole esperienza che la cosa migliore sia diventare un topo d’appartamento o asserragliarsi in casa.
Arretrare dalla condizione evolutiva alla quale siete faticosamente giunti non vi farà stare meglio, potete contarci, né vi farà incontrare gente migliore, né vi farà avere rapporti interpersonali migliori. Come credete che siano diventate malvagie alcune persone se non per mezzo di meccanismi di contagio del disagio? Sicuri che diventare più simili a chi vi ha fatto del male, persona per la quale provate probabilmente poca stima, vi possa fare stare meglio? Davvero pensate di potervi svegliare più sereni la mattina sapendo di aver detto “ti amo” una volta di meno, immaginando che il segreto di un affetto migliore per sé o per gli altri stia nel controllo o nella negazione degli affetti? Credete davvero che la felicità si possa nascondere nel controllo del potere, della paura e della stessa felicità vostra e altrui? Fatemi aggiungere che la felicità relazionale non si nasconde neppure nell’imparare a stare da soli, e questo soprattutto se quando siete da soli siete in pessima compagnia.
Come scrisse J. H. Boss, se ti sembra felicità quella di allontanarti dalle persone, devi essere un dio, un eremita o una bestia. Imparare ad amare se stessi passa attraverso la relazione con gli altri, scordatevi di apprendere l’amore per voi stessi chiusi in una stanza. Mettiamo che stiate cercando un buon ristorante ma il primo in cui andate è pessimo, il secondo un poco già meglio ma il terzo è ancora pessimo. A questo punto potete decidere di imparare a cucinare come uno chef e cavarvela in casa ma questo non è più andare al ristorante, è un’altra cosa. Potete invece girare e girare ancora, finché imparate a scegliere meglio, aguzzando vista e intelligenza per scegliere più saggiamente. Se poi il vostro problema fosse quello di non essere acuti, potete farvi aiutare da chi ha già sviluppato questa competenza, persona che ovviamente non può guidarvi in maniera rigida verso una meta perché, si sa, i gusti sono gusti, ma magari può darvi quella dritta in più che poi, per prove ed errori, vi porta all’agognatissimo tavolo giusto, proprio quello che il vostro palato stava cercando. E, guarda un po’, le cose belle accadono più facilmente a coloro che si cimentano, che modificano progressivamente vecchi assetti. Insomma, per dire che l’amore è relazione e la relazione è amore. Il paradosso è che il paziente o l’amico espongono il loro anelito all’eccellenza della solitudine in una dimensione relazionale poiché non ne parlano a un muro ma a una persona! Dall’inizio alla fine, come antenne che ricevono e trasmettono, partecipiamo a una rete di relazioni, di voci, di comunicazioni e di segnali. È tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo. Buon appetito!