L’altro giorno con una paziente si parlava del matrimonio. “Alla fine la sua funzione è più che altro connessa all’ordine, alla tenuta sociale”, diceva. Una visione forse soggettivamente sfiduciata tuttavia non scorretta in termini: di sicuro il matrimonio ha una funzione di tenuta sociale, dei valori, le tradizioni e così via. Credo che il problema di una visione sfiduciata o strettamente razionale (e facciamoci stare anche dentro che la monogamia forse non è esattamente l’indirizzo assoluto della nostra specie), stia nelle premesse.
L’atto matrimoniale non è o non dovrebbe essere percepito come un’istituzione. Dubito che chi abbia chiesto ad una persona di sposarlo/a abbia avuto in mente di fare qualcosa per cementare le tradizioni della nazione, di farlo eroicamente, per intrupparsi in qualcosa che hanno fatto tutti gli altri quindi la faccio anche io. Sarò forse rimasto impigliato col cuore in qualche romanzo d’appendice ma voglio sperare che ci si sposi perché ci si vuole bene. Almeno bene, almeno quello. Una condizione per la quale, pur non perdendo l’analisi della realtà che ci dice che ogni cosa potrebbe finire, si sente, si spera, si desidera che il fallimento dell’unione non colpisca noi. Che lo si senta almeno un giorno prima di salire sull’altare, e pure il giorno del matrimonio. E dai, almeno per i sette giorni successivi! Che poi, istituzione o no, Chiesa Vs Comune, la gente si sposa di continuo e non intendo con la storia degli anelli e tutto l’armamentario. La gente si sposa nella propria testa, si ama, si lega, ci crede.
Ci crede così tanto che fa dei figli fuori da ogni vincolo e il dolore che si prova se la storia finisce non è inferiore a quello di due separati. Forse inferiori sono i problemi burocratici ma alcune volte non è neppure così, perché si conviveva, si era preso un animale di compagnia, si erano fatte cose, insomma, determinate dal fatto che la fine non fosse contemplata. Quello che voglio dire è che la gente non ha voglia di sposarsi perché esiste il matrimonio ma che esso esiste perché la gente vuole sposarsi, vuole stare insieme e, si badi, non per passare cinque minuti in compagnia ma perché hanno preso dannatamente sul serio i rispettivi sentimenti. E fintantoché qualcuno si amerà, e per la natura stessa dell’amore nemesi della morte, esisterà sempre qualche evento, festa, istituzione serissima o faceta, atta a celebrare questo momento d’eccellenza dell’anima. Esisterà per etero, per gay, per unicorni e stelle alpine se queste potessero amarsi. Poi le cose cambiano, si sa. Il tempo passa, ci si dà per scontati, si litiga, qualcuno inizia a premere il tubetto del dentifricio dal lato sbagliato, la vicina di casa quando esce la sera tutta in tiro è più bella della nostra donna quando si sveglia la mattina e ha 38 di febbre e, d’altro canto, il collega di lavoro ha quelle attenzioni in più e quel filo di pancia in meno di nostro marito. E ciao. Alcuni, con piccoli quotidiani gesti d’attenzione tengono in piedi la premessa promessa, altri, eroicamente, inciampano e si rialzano insieme, altri ancora pianificano così male fin dall’inizio che già gli invitati al matrimonio guardavano basso e si frugavano nelle tasche. E all’appello mancano ancora i figli, il lavoro, il mutuo, le malattie e tutta la vita che spiffera in mezzo. Io, non sposato, qui rispettosamente faccio tre passi indietro e ascolto voi perché in ambito teorico sono ferratissimo ma la pratica è francamente altra cosa.