A meno che non si abbia davvero qualche problema grosso, ad attraversare elementari, scuole medie, superiori e, magari, università s’impara per forza qualcosa. Tutta la nostra società riconosce l’importanza dell’istruzione ad un livello tale da renderla obbligatoria… e grazie a dio! Una sorta di TCO, un Trattamento Culturale Obbligatorio contro la volontà dei giovanissimi che vorrebbero stare in cortile tutto il giorno a giocare con gli amichetti. Sì, sono vecchio, rettifico: che vorrebbero stare tutto il giorno a chattare e swaggare. Insomma, anche ad essere refrattari, solo per un principio di osmosi, molto si apprende, molto si dimentica e qualcosa rimane. Tralascio le osservazioni sullo stile didattico, il quale, magari per non sturbare troppo alunni e docenti, pare uguale dalle elementari al periodo universitario: studi, ripeti, ricordi, prendi il voto e vai avanti. Che poi tu sia in grado di ricordare sul lungo termine e, ancor più importante, riesca a fare delle connessioni fra argomenti dimostrando di aver davvero padroneggiato la materia, quello sembra contare poco.
La scuola premia l’applicazione più che la cultura in senso stretto; magari questo riflette ciò che poi conterà nel mondo del lavoro: il capo chino più che la potenza mentale. Vabbè, per dire che se ci si mette sotto ce la si fa anche se non si è dei Nobel e questo metodo di studio da robottino leggi-e-ripeti è proprio alla portata di tutti. È perciò facile incappare in soggetti che hanno un buon livello culturale, argomenti, idee politiche, sociologiche, psicologiche, tecniche e via discorrendo. Com’è, però, che quelle stesse persone fanno dei pasticci immani quando si tratta dei sentimenti? Pasticci subiti, pasticci agiti.
In primo luogo perché solo una profonda cultura riesce a modulare l’emotività e l’assetto sentimentale e, come detto, la scuola è votata all’applicazione e al risultato contingente più che alla costruzione della persona, la quale, peraltro e giustamente, è bene che eserciti una sua autonomia formativa extrascolastica. In secondo luogo, e più importante, perché non esiste una scuola che insegni i sentimenti, cosa essi siano, come si interagisca fra simili sul piano affettivo, eccetera. Quindi sostanzialmente ognuno s’arrabatta da sé tramite dotazione genetica, imprinting familiare, prime esperienze giovanili e poi quelle adulte. Succede perciò che si incontrino persone di 50 anni, intellettuali, con tutti i loro titoli e le loro cosine apposto ma assolutamente squinternati dal punto di vista affettivo e relazionale, al livello, chessò, di un quindicenne. E sono, molto democraticamente, maschi e femmine. Si parla e si opera con corsi di educazione sessuale per alunni di giovane età, cosa per la quale nutro dei dubbi a parte la sacrosanta competenza in ambito di prevenzione, di conoscenza anatomica e fisiologica. Il sesso deve anche essere un po’ scoperto a tentoni, tramite quel gioioso e inquieto mistero che lo rende allettante, per prove ed errori (ma non gravidanze indesiderate!) senza che la società cerchi, tramite lezioncine, di governare ciò che è per natura “occulto” (sottratto agli occhi), anche per evitare, come disse Foucault, che ciò si riduca a una delle tante occasioni in cui la sessualità discussa si trasformi in un sottile esercizio di sottomissione al potere costituito, in un fallimento della rivolta, dato che queste discussioni del proibito dilatano l'area delle cose da dire, da fare e quindi da gestire, togliendo all'intimità, al segreto e al gioco sessuale la loro cifra crepuscolare, fascinosa e realmente sovversiva. Corsi di educazione sentimentale sarebbero meglio, più auspicabili, ma va a capire come farli, cosa dire e a chi affidarli. Nell’attesa che qualcuno ci provi davvero e che il Ministero investa fondi (campa cavallo…) continuiamo ad arrabattarci come possiamo, ora consapevoli che l’abito e il master non fanno il monaco.