Diverse ipotesi all'ordine del giorno
Atutti è capitato di terminare una relazione affettiva e domandarsi, dopo un po' di tempo, come mai si sia accettata per tanto tempo una persona con la quale avevamo così poche affinità. Se dopo i primi fallimenti tendiamo a dare la colpa alla sfortuna e agli altri, dopo una serie di fallimenti affettivi iniziamo ad avere il dubbio che forse c'è qualcosa nel nostro modo di scegliere le persone che dovrebbe essere rivisto, sistemato. Bene, proviamo a fare qualche ipotesi sul perché non riusciamo a trovare un partner adatto a noi.
prima ipotesi: "NON CAPIAMO LE ALTRE PERSONE"Per consolarci, iniziamo con il dire che buona parte delle altre persone hanno i nostri stessi problemi a comprendersi gli uni con gli altri. Quando conosciamo qualcuno che ci interessa, facciamo del nostro meglio per capire chi sia: visitiamo la sua famiglia, i posti in cui ha passato l'infanzia, guardiamo le sue foto, incontriamo i suoi amici. Tutto questo contribuisce a darci la percezione di aver fatto i nostri bravi compiti. L’impegno circa la conoscenza della personalità del potenziale partner deve essere direttamente proporzionale al tipo di impegno con cui vogliamo costruire la relazione. Avventura di una notte? Potrebbe bastare il nome, ma forse si può fare anche a meno di quello. Matrimonio o convivenza? Prepariamoci ad andare un pochino più a fondo: i suoi atteggiamenti, la sua disposizione verso l’autorità, l’introspezione, la sessualità, i soldi, i bambini (anche se non si vogliono fare), gli animali (anche se non se ne avranno … se non ci saranno bambini probabile che ci siano animali), la malattia, la fedeltà e via discorrendo di almeno cento altre cose. Questa conoscenza non sarà realizzabile nel corso di due o tre happy hour. Voi mettereste tutti i vostri soldi in un fondo d’investimenti senza prima esservi assicurati che sia solido, che dia buoni interessi? In assenza di un serio interessamento circa la personalità del soggetto che dovremmo avere al nostro fianco, nella maggior parte dei casi ci si basa sulle mitiche “impressioni”: i suoi sorrisi … la forma del naso “che mi ricorda” … la luce nei suoi occhi, eccetera; come se volessimo comprendere la fisica delle particelle osservando la fotografia di una centrale nucleare. Nell’elaborare una personalità partendo dalle impressioni, proietteremo molte delle nostre aspettative, così come si fa quando si guarda una bozza grafica: saremo obbligati a “vedere” dei particolari non disegnati. Se osserviamo l’immagine a sinistra non vediamo una donna che non abbia narici, con poche righe al posto dei capelli e senza ciglia; senza pensarci riempiamo le parti mancanti così da dare un senso a ciò che i nostri sensi percepiscono. Il materiale di riempimento può essere solo nostro, cioè appartenere alla nostra realtà conoscitiva ma non, assolutamente non allo stimolo originario. Attenti, perché facciamo esattamente la stessa cosa con le persone.
Ricorda: “Ci sono individui composti unicamente di facciata, come case non finite per mancanza di quattrini. Hanno l'ingresso degno d'un gran palazzo, ma le stanze interne sono paragonabili a squallide capanne. (B. Gracián y Morales)
seconda ipotesi: "NON CAPIAMO NOI STESSI" Quando cerchiamo un partner, i primi parametri che ci vengono in mente sono fattori colorati, simpatici quanto vaghi: “è gentile”, “è divertente”, “gli/le piace l’avventura”, “ci sa fare coi bambini”, etc. Non è che questi fattori siano in sé sbagliati, però non sono sufficientemente precisi rispetto a ciò che dovremmo cercare in un rapporto di coppia durevole, soprattutto se il fine è quello di essere sufficientemente tranquilli. Non dimenticate che tutti noi, a nostro modo, siamo folli, il che significa non normali secondo un parametro di normalità che è solo un’astrazione statistica. Siamo nevrotici, immaturi e a volte abbiamo poco equilibrio, tuttavia non sappiamo esattamente quanto, poiché nessuno ci incoraggia a scoprire i nostri limiti. Il principale e più urgente compito di ogni persona con la quale vogliamo stare insieme seriamente è comprendere il nostro modo particolare di essere folli. Una valida relazione non si crea fra due persone sane, ma fra due persone folli che hanno avuto la capacità o la fortuna di trovare un accomodamento conscio tra le loro relative follie. Forse abbiamo una tendenza latente ad arrabbiarci quando qualcuno non è d'accordo con noi, o possiamo rilassarci solamente quando stiamo lavorando, oppure abbiamo un'intimità un po' complicata, oppure ancora non siamo mai stati capaci di spiegare cosa proviamo quando siamo preoccupati. Una serie di problemi che, col passare del tempo, crea catastrofi e che quindi abbiamo bisogno di conoscere, in modo da trovare persone che siano adatte a gestire il modo in cui noi siamo fatti. La domanda standard di ogni prima uscita con un nostro potenziale partner dovrebbe semplicemente essere: “… in che modo tu sei matto/a?". Il problema è che conoscere le nostre personali nevrosi non è facile: per esempio, prima di una convivenza potremmo non vivere situazioni che ci mettano di fronte ai nostri “disturbi”, in altri casi viviamo relazioni che slatentizzano le nostre problematiche ma finiamo per accollarne la responsabilità al/alla partner. Molti dei nostri amici, poi, potrebbero non aver alcun interesse a metterci alla prova, mirando solo a passare un sereno pomeriggio con noi. Risultato? Essere ciechi rispetto alle nostre fragilità o considerarle dei tratti temperamentali da accettare così, semplicemente. Quando siamo soli e siamo furiosi non urliamo perché non c'è nessuno che ci ascolta e perciò non riusciamo a calcolare la nostra capacità di gestire la rabbia. Oppure lavoriamo tutto il tempo senza sosta e senza problemi perché non c'è nessuno che ci chiama per cena, per cui non capiamo se usiamo il lavoro per controllare l’ansia, o ancora quanto possiamo danneggiare la vita di coloro che provano a fermarci. Da soli non possiamo avere l'opportunità di misurare la nostra tendenza all’evitamento dell'intimità che invece si paleserebbe in una relazione. In fondo, uno dei maggiori privilegi dell'essere soli è l'adulante illusione di essere una delle migliori persone con la quale stare assieme.
Ricorda: “Vuoi conoscerti? Osserva la condotta degli altri. Vuoi comprendere gli altri? Guarda in cuor tuo. (F. Schiller)
terza ipotesi: "NON SIAMO ABITUATI AD ESSERE FELICI" Crediamo di poter trovare la felicità nell’amore ma non è così semplice. Ciò che cerchiamo più spesso in effetti è la “familiarità”, il che complica di molto la nostra ricerca della felicità. Nei rapporti adulti tendiamo a ricreare le dinamiche affettive vissute in infanzia, quando per la prima volta siamo venuti a contatto con l’amore e i suoi significati, sfortunatamente la lezione che abbiamo ricevuto può non essere positiva, cioè l’amore sperimentato può essere interlacciato con altri vissuti e dinamiche meno piacevoli: l’essere controllati, il sentirsi umiliati, l’essere abbandonati, il non comunicare. In breve: sofferenza. Come adulti, quindi, possiamo rifiutare dei validissimi candidati non perché siano sbagliati come partner ma perché sono troppo ben equilibrati (troppo maturi, troppo comprensivi, troppo affidabili) e queste buone qualità possono sembrarci non familiari, aliene, quasi oppressive. Siamo invece attirati inconsciamente da soggetti che sappiamo razionalmente non poterci dare serenità ma che tuttavia riescono a frustrarci in un modo che già conosciamo, un modo familiare. Finiamo per legarci a gente sbagliata perché quella giusta ci sembra sbagliata, immeritata. Perché non abbiamo esperienza di situazioni sane. Perché, in ultima analisi, non associamo l’essere amati con il sentirci soddisfatti. Sapete una cosa? L’amore è una cosa semplice e se non vi mostra questo volto o non è amore oppure lo è, ma deformato dal peso di un sacco di problemi.
Ricorda: “Rendi conscio l’inconscio, altrimenti lui guiderà la tua vita e tu lo chiamerai destino. (Jung)
quarta ipotesi: "ESSERE SINGLE E' COSI' BRUTTO!" Non si è nelle migliori condizioni mentali per scegliere un partner quando la solitudine è qualcosa che ci risulta intollerabile. Il rischio è amare il fatto di non essere single piuttosto che la persona che ci ha evitato di esserlo. D’altra parte, dopo una certa età, la società rende la singletudine una cosa poco piacevole. La vita sociale incomincia ad appassire, le coppie, che inconsciamente possono sentirsi minacciate dai single e dalla libertà che essi incarnano, li possono invitare sempre meno e il single si sente progressivamente “diverso”, soprattutto se osa fare da solo cose che per tradizione si fanno in comune: andare al cinema, andare al ristorante, etc. Il sesso, poi, è una cosa più impegnativa da single benché sulle prime possa sembrare che essere single sia la chiave per ogni spasso: arrivati sui 30 anni, soprattutto, dopo una serie di rapporti con partner diversi, il rischio della progressiva delusione non è raro. È tempo tuttavia che il concetto di “relazione” s’inizi a svincolare dal dominio della coppia come unica forma di aggregazione sociale sensata; non siete chiamati ad una rivoluzione, almeno non lo siete da queste righe. È sufficiente trattenere l’idea che il nostro valore prescinde dal ruolo che l’esistenza ci chiama a vestire: abbiamo senso come figli, come lavoratori, come partner, come genitori, come single; allo stesso tempo non solo come figli, lavoratori, genitori, partner. La pressione sociale (che si costruisce sempre su concetti astratti quali “media”, “norma”) non deve determinare il nostro valore. Quando la maggioranza della gente accetterà di buon grado che si ha senso sempre, a prescindere, allora la rivoluzione avverrà da sé. E quanto detto non è affatto in contraddizione con quanto segue.
Ricorda: “Pensavo che la cosa peggiore nella vita fosse restare solo. No, non lo è. Ho scoperto invece che la cosa peggiore nella vita è quella di finire con persone che ti fanno sentire veramente solo. (R. Williams)
quinta ipotesi: "DEVO IMPARARE A STARE DA SOLA/O!" Grande fraintendimento questo! Grandissimo per un animale sociale qual è l’essere umano. Grande fraintendimento anche in ambito psicoterapeutico, dove il paziente arriva con questo genere di richiesta: “… alla fine sono passato/a da un rapporto all’altro, mi rendo conto che sono stato poco da solo/a, devo imparare a stare da solo/a … “ , il che, in ambienti più informali, va di pari passo alla frase: “Devo imparare ad essere più stronza/o, più egoista/a, pensare più a me”. Male, malissimo. Partiamo dal fondo. Diventare più stronzi o egoisti, cioè rendervi peggiori, non può essere la soluzione migliore per voi né per la società, così come nessuno che subisca un furto in casa dovrebbe apprendere da questa sgradevole esperienza che la cosa migliore sia diventare un topo d’appartamento. Essere peggiori, ovvero arretrare psicoevolutivamente (cosa peraltro non facilissima da realizzarsi per chi abbia fatto un percorso in avanti), non vi farà stare meglio, potete contarci, né vi farà incontrare gente migliore, né vi farà avere rapporti interpersonali migliori. Come credete che siano diventate malvagie alcune persone se non per mezzo di meccanismi di contagio del disagio? Sicuri che diventare più simili a chi vi ha fatto del male, persona per la quale provate probabilmente poca stima, vi possa fare stare meglio? Davvero pensate di potervi svegliare più sereni la mattina sapendo di aver detto “ti amo” una volta di meno, di esservi privati di qualcosa che prima vi dava gioia, immaginando che qualcuno aspetti una chiamata che voi gli/le negate? Credete davvero che la felicità si possa nascondere nel controllo del potere, della paura e della stessa felicità vostra e altrui? Fatemi aggiungere che la felicità non si nasconde neppure nell’imparare a stare da soli. Come scrisse J. H. Boss, se ti sembra felicità quella di allontanarti dalle persone, devi essere un dio, un eremita o una bestia. Ma quando mai in questa nostra vita si sta da soli davvero? Che senso ha imparare una capacità che di fatto non useremo davvero mai? … E grazie al cielo! Possiamo impiegare tutto il nostro tempo a imparare a camminare come se fossimo sul suolo lunare e pesassimo sei volte di meno … già, lo possiamo fare ma … quando ci potrebbe servire una cosa del genere? Non dobbiamo imparare a stare da soli, non dobbiamo neppure imparare, fatemi dire, a non appoggiarci agli altri perché avviene, è sempre avvenuto da quando siamo nati e avverrà ancora se la vita continuerà a scorrere: ci ammaleremo, avremo dei momenti di debolezza, di stress, delle paure o momenti di gioia che vorremo condividere; le altre persone, i loro sguardi, il loro aiuto, sarà sostanzialmente tutto ciò su cui possiamo contare. Poi ci saremo noi per loro, quando ci chiameranno. Dobbiamo semplicemente imparare a scegliere bene queste persone alle quali affidarci, che possono prenderci in tempo se ci lasciamo cadere all’indietro. Altro che “soli”, altro che “bisogna pensare a sé prima di dedicarsi agli altri”! Beh, certo che se manca un Sé, manca anche tutta una vita. Dunque pensate di poter imparare a relazionarvi meglio con voi stessi e gli altri evitando la relazione con gli altri e quindi con voi stessi? Ok, mi si dirà, ma prima di relazionarmi meglio devo imparare come si fa! Io dico: relazionandoti meglio. Ma com’è possibile? Iniziando a parlare con altri nuovi, altri più giusti, modificando progressivamente vecchi assetti, vecchi pesi, ma tutto ciò all’interno delle relazioni (nel senso più ampio del termine) finché non inizierete a vedere con i vostri occhi che siete capaci di essere diversi, di attirare gente diversa, di gestire rapporti diversi e gratificanti. Imparare ad amare se stessi passa dunque attraverso la relazione con gli altri, scordatevi di apprendere l’amore per voi stessi chiusi in una stanza, così come non s’impara and andare in bicicletta leggendolo su un libro. L’amore è relazione, la relazione è amore. Il paradosso è che il paziente o l’amico espongono il loro proposito d’intenti, il loro anelito all’eccellenza della solitudine, in una dimensione relazionale! Questo è il buon segno che ciò che deve essere integro lo è ancora, anche se difeso. Non dovete dunque imparare a stare in piedi sulle vostre gambe finché i muscoli e le ossa non sapranno sostenervi, ma dovete camminare finché non capiate dove si trova il vostro miglior luogo e dove, in esso, possiate trovare un posto a sedere, per rilassarvi e chiudere gli occhi. Nasciamo e moriamo nella nostra fisica unicità, ma nasciamo da una relazione e moriamo con qualcuno che ci tiene la mano, o che ci chiude gli occhi. Dall’inizio alla fine, come antenne che ricevono e trasmettono, partecipiamo ad una rete di relazioni, di voci, di comunicazioni e di segnali. È tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo.
Ricorda: “Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così. (I. Calvino)
sesta ipotesi: "L'ISTINTO E' IN POSIZIONE PRIVILEGIATA" Un tempo le unioni tra uomo e donna erano un commercio razionale. Erano un affare algido che non riguardava l’affetto ma piuttosto il fatto di unire il vostro appezzamento di terra a quello di una persona della quale, a essere fortunati, ci si poteva nel tempo innamorare. Questo tipo di tradizione è stata sostituita dall’unione romantica, la quale ha determinato che l’unica ragione sostanzialmente valida per dare inizio ad una relazione è il cuore che batte, il sentirsi innamorati, l’istinto. Poche altre domande. La persona viene visitata da una sensazione divina e questo basta, e deve bastare anche a coloro che eventualmente non approvano per motivi decisamente più terreni. Il matrimonio d’interesse era così arido, pedante e cauto che l’attuale legame sentimentale ci spinge a ritenere che il riflettere troppo sull’unione sia inopportuno: analizzare le nostre unioni suona proprio … anti-romantico. L’istinto come unica determinante e la velocità di innamoramento sembrano essere un segno di sicuro successo, proprio perché il vecchio stile delle unioni “sicure” era una minaccia alla propria felicità. Nelle unioni per interesse si rispondeva a queste domande: Chi sono i suoi genitori? Quanta terra ha? Nell’unione romantica si determina il valore di un rapporto tramite: l’incapacità di pensare ad altro se non al partner, il desiderio sessuale nel confronto del partner, il ritenersi unici. Adesso bisognerebbe introdurre nuove questioni: com’è come amico/a? Che tipo di difetti ha, ovvero posso sopportarli? Con lui/lei posso svilupparmi come individuo? Come sarebbe come genitore (anche se non ci saranno figli)? Certe cose cambiano, evolvono, altre meno; ad esempio la gatta frettolosa fa ancora i gattini ciechi, d’altra parte il segreto di ogni successo sta nell’agire e non nella continua circospezione. L’istinto, ciò che proviamo nel contingente, usato come unico metro di misura per giudicare la bontà del nostro amore, o meglio per determinare il successo futuro della coppia, è decisamente un azzardo. L’istinto è fame, sì, ma soddisfare la fame non è detto che ci eviti l’indigestione. Sappiate moderare l’istinto senza privarvi dell’ebbrezza che esso può donarvi, esattamente come quando siete riusciti a fermarvi dal bere troppo vino, garantendovi un sorriso ed evitando la nausea.
Ricorda: “L’istinto è una gran cosa; io ero timido per istinto. (W. Shakespeare)
settima ipotesi: "VOGLIAMO CONGELARE LA FELICITA'"Abbiamo una tendenza innata e masochistica a voler rendere le cose piacevoli in modo permanente: se come turisti siamo stati bene in un posto pensiamo subito come sarebbe bello vivere lì, ad esempio. Oppure se abbiamo passato delle belle ore con una persona, senza dare troppo peso alle variabili esterne che hanno reso speciale quel momento, pensiamo subito a come potrebbe essere bello fare coppia con quella persona. Molti si sposano pensando che quel contratto garantisca per anni la felicità che si sta vivendo in un momento specifico. Speriamo di imbottigliare la felicità. Sfortunatamente non sempre c’è una connessione tra la formazione di una coppia e la felicità, così come la felicità provata in determinati momenti insieme a una persona potrebbe in effetti essere stata generata per una combinazione di variabili esterne (il tramonto, la musica, etc.) più che dalla persona in sé. Quindi se cerchiamo di imbottigliare quella felicità, tolti gli ingredienti esterni che mutano nel tempo, potremmo scoprire che l’ultimo ingrediente rimasto, il partner, non è un buon ingrediente. La gioia tende ad arrivare a picchi e questi picchi tendono per loro natura a essere brevi. La felicità non si manifesta in blocchi della durata di un anno. Dovremmo essere pronti ad apprezzare quotidiani scorci di paradiso che si palesano sulla nostra strada piuttosto che investire una marea di energie per cercare di congelarli e conservali, nella personale illusione, in definitiva, di poter manipolare lo spazio e il tempo.
Ricorda: “In nessun modo si potrà dare felicità a un cuore che in sé non ne abbia la prima sorgente. (A. Graf)
VIII ipotesi: "CREDIAMO DI ESSERE SPECIALI" Ok, si sa: in un modo molto speciale siamo speciali, unici, nessuno è uguale a un altro e quello che possiamo offrire è un'unica e inconfondibile voce nel coro. D’altra parte, se proviamo a staccarci da noi stessi (esercizio complesso questo) e tentiamo di osservarci come elementi di un sistema molto complesso, non possiamo che convenire che la nostra innegabile unicità è immersa nelle comuni dinamiche del vivere. Questo significa che se le statistiche ci dicono che un matrimonio su due fallisce (è un esempio, non so se la realtà sia tale) noi saremo sottoposti alla stessa statistica se mai volessimo sposarci, il che a propria volta non significa che il nostro matrimonio andrà male; ovviamente dipende da noi, da chi ci siamo sposati e da altri fattori intervenienti. Tuttavia credere che la sorte che subiscono miliardi di persone non possa accadere anche a noi è quantomeno arrogante. Se le statistiche ci indicano un trend, se la gente più anziana ci dice che un rapporto di coppia è fatto di compromessi, di sacrifici, di scontri così come (soprattutto) di affetto, faremmo bene a prestare attenzione a questi suggerimenti, così come per capire se in una giornata uggiosa serva l’ombrello osserviamo dalla finestra se i passanti lo stiano usando o meno. Insomma, siamo tutti speciali, certo, ma non abbastanza da pensare di sottrarci alla pioggia. Discorso a parte ma parallelo è: “Io sono così, il mondo deve accettarmi per quello che sono!” … Beh, davvero pensate che nell’enorme e complessa Rete di Indra che è la relazione tra persone, in cui ogni nodo è un gioiello unico e inestimabile ma connesso e riflettente tutti gli altri, si possa gestirvi senza modularvi? Pensate davvero di poter evitare la dialettica, il compromesso, lo scontro se ha un valore di crescita? Il mondo vi “comprenderà” per tutto ciò che vogliate essere ma non nel senso che vi “capirà”, semplicemente vi “conterrà” così come è capace di contenere i fenomeni più sinistri, e più il vostro modo di essere è ostico, più verrete collocati in margini ben definiti e accidentati a contatto con altre persone complicate che il vostro essere avrà attirato o dalle quali siete attirati. Siate persone sufficientemente buone, il mondo non avrà nessun problema ad accettarvi, né voi avrete problemi ad accettare il mondo.
Ricorda: “La vita è una lunga lezione di umiltà. (J. M. Barrie)
IX ipotesi: "VOGLIAMO SMETTERE DI PENSARE ALL'AMORE" Prima di arrivare al coronamento del nostro sogno relazionale, che sia il matrimonio o i suoi succedanei, è probabile che si abbiano sulle spalle anni di relazioni turbolente o quantomeno poco fortunate. Abbiamo provato a stare con gente alla quale non piacevamo o che non piaceva a noi, ci siamo imbracati in uscite per le quali (senza che lo confessassimo a nessuno) speravamo di incontrare un possibile lui/lei, tornando poi a casa non poco frustrati. Immaginiamo che un giorno si arrivi a un punto di rottura, al livello che non si riesca a sopportare più tutto questo circo e si dica basta al gioco del conoscere, delle coppie, del provarci e non imbroccarla. Il lato pericoloso di questa “terminale” posizione psicologica non è tanto il rimanere soli (abbiamo detto che non si è mai soli), piuttosto il farsi andare bene una relazione poco gratificante, l’ultima della serie, solo perché non abbiamo più la forza, il cuore, di dire no, che si può avere di meglio. Il risultato è sprofondare in una palude di “mediocrità affettiva” - suona orribile vero? - solo perché non ce la si fa più a tollerare il (melo)dramma dei giochi del cuore, i picchi e i baratri. La relazione statica, per quanto poco convinta, può cullarci con l’idea di poterci salvare dai dolori del cuore. Per quanto non sia una buona strategia è comunque una strategia, praticata peraltro da molti. La persona che accetta il “rapporto fermo per eccesso di fallimenti” suona tuttavia come quello che invidiasse una persona sulla sedia a rotelle perché a quest’ultima non capiterà mai di avere il fiatone dopo una corsa a perdifiato.
Ricorda: “Per i timidi e gli esitanti ogni cosa è impossibile, perché così sembra. (W. Scott)