Psicologo, è vero che?...
A tutti farebbe bene fare quattro chiacchiere con uno psicologo.
No. Questo è uno dei tormentoni, fintamente positivo, più in voga nel mio ambito professionale che tuttavia non trovo affatto corretto. Le “quattro chiacchiere” fanno bene a chi VUOLE parlare con uno psicologo. La consulenza psicologica può essere una sgradevole esperienza per coloro che hanno una scarsa motivazione alla cosa o che, peggio, sono convinti o pressati da altri ad andare dallo psicologo. Tutti possono beneficiare della psicologia ma occorre volerlo: il primo (e fondamentale) atto terapeutico è proprio quello della persona che, in piena libertà, si reca dal professionista. Il nostro lavoro non ha nulla a che fare con il proselitismo missionario, gli psicologi non percepiscono il mondo come un luogo abitato da persone disturbate che ogni giorno perdono l’occasione di entrare nel loro studio. Se una persona non reputa di aver bisogno della nostra consulenza, va bene così, vi è il massimo rispetto per questa decisione. Inoltre pensare che TUTTI dovrebbero colloquiare con uno psicologo, svaluta implicitamente la professionalità specifica dello psicologo. Se una persona è in salute, con una dieta equilibrata e tutto il resto, perché dovrebbe aver bisogno d’integratori? Nella stessa misura, se sinceramente vivi con discreta serenità la tua vita, che sia lavorativa, sociale, affettiva, perché dovresti investire tempo e soldi per impegnarti in un percorso psicologico? Psicologia positiva vuole anche dire evitare delle narcisistiche mire verso condizioni di vita idealmente perfette se già sappiamo trarre gratificazione dalla nostra condizione di vita, e psicologo positivo significa evitare di patologizzare la collettività facendola sentire intimamente inadatta, a disagio o francamente malata quando, in effetti, buona parte della popolazione non vive condizioni di disagio psicologico o comunque non tali da correre subito in cerca del dottore. Se mi morsica una zanzara, ovviamente un dermatologo potrebbe riconoscere l’origine del ponfo, del prurito e l’irritazione cutanea, però forse una tale puntura non necessita di una visita specialistica ma piuttosto l’accettazione serena che l’estate è anche fatta di noiose zanzare.
Lo psicologo va bene solo per quelli che hanno gravi problemi psicologici e, comunque, quelli che vanno dallo psicologo sono dei deboli.
Pessimo preconcetto. Pessimo non tanto perché antipatico, in quanto preconcetto, ma perché ha conseguenze negative molto concrete sulla popolazione. È evidente che qualsiasi disturbo fisico, se trascurato, non può che peggiorare e cronicizzare. Nella stessa misura, quello che pare un lieve disagio psicologico, con il tempo può mettere radici nella psiche della persona che lo ospita, può prendere residenza, accrescersi e diventare una disagio che potrebbe avere conseguenze gravi nella vita della persona che ha trascurato il problema quando era più facilmente gestibile, il che, di conseguenza, renderà la terapia più lunga e, poiché più lunga, più costosa. È esattamente quello che accade con i denti, quando rimandiamo la cura di una piccola carie per paura del dentista o per risparmiare i pochi soldi dell’otturazione. Non speriamo in una guarigione spontanea (sappiamo che la carie non sparirà da sola) ma rimandiamo sempre a domani la soluzione del caso. In realtà la “debolezza” citata nel preconcetto non è quella che ci fa andare dallo psicologo ma quella che ce lo fa evitare; la debolezza è la paura del cambiamento. Non a caso i più intimoriti dalla psicologia, dallo psicologo e dalla psicoterapia, sono i più avversi ad essa e i più inclini a giudizi negativi che, non di rado, sono semplici proiezioni delle proprie paure (e della propria debolezza) in coloro che hanno invece la forza di cercare assistenza psicologica. Non c’è vergogna e non ci deve essere paura nel cercare di costruirsi una migliore qualità di vita!
Gli psicologi sono un po’ tutti matti e scelgono questa professione per risolvere i propri problemi.
Gli psicologi non sono un po’ tutti matti né lo diventano a forza di stare a contatto coi problemi della gente, poiché la formazione che devono avere consente loro di contenere il potere contaminante del disagio e, anzi, permette di invertire tale processo a vantaggio del paziente. È anche interessante notare che non solo lo psicologo viene indicato come “un po’ fuori” ma altri professionisti che hanno a che fare con la creatività e la psiche sono additati allo stesso modo: filosofi, architetti, artisti … Ciò perché chi lavora con la mente e con il suo potere creativo (che può essere anche caos) non opera appoggiandosi a binari il cui orientamento è rigido e prevedibile. Questa imprevedibilità, che nell’operato dei professionisti suddetti (psicologo compreso), si fa processo creativo, crea comunque sconcerto dal quale molti si difendono nella maniera più ovvia e immediata, cioè attaccando lo psicologo proprio nel suo ambito. Gli psicologi hanno scelto di studiare psicologia per risolvere i propri problemi? A parte rari casi no; quei rari casi finiscono per non svilupparsi in ambito professionale poiché i pazienti non sono degli sprovveduti è inquadrano velocemente un professionista problematico. Poi, certamente, la professione di psicologo implica il privilegio di poter costruire dei modelli di bene per sé (poi condiviso) partendo anche dall’ascolto degli altri. Ciò che muove lo psicologo nella scelta di tale studio e professione è una percepita predisposizione all’ascolto degli altri e una normale curiosità per le tematiche connesse alla mente e ai suoi processi.
Lo psicologo pensa ai soldi.
Se così fosse, noi psicologi e terapeuti avremmo davvero imboccato il percorso più complicato verso la ricchezza! No, decisamente fare soldi non è il motivo che ci ha spinti alla professione. Il rispetto umano che contraddistingue la quasi totalità dei professionisti della salute mentale, impedisce intimamente (prima che deontologicamente) di sfruttare il malessere dei pazienti per adottare strategie di speculazione economica. Ovviamente per lo psicologo i soldi hanno un’importanza, così com’è per tutti e, val la pena dirlo, lo psicologo non è un missionario ma un professionista e come tale deve essere pagato, ovviamente in risposta ad un servizio di qualità. Il costo di un percorso terapeutico, che mi rendo conto non rappresenta una spesa ininfluente, va tuttavia inteso come un investimento non solo rispetto ad un’astratta qualità di vita (che poi di fatto non è astratta) ma circa lo sviluppo di risorse che, a loro tempo, potranno essere impiegate per il miglioramento della propria condizione reddituale. Insomma, una persona che sta bene, è più produttiva, ha una rete sociale fattiva e da ciò ne deriva un potenziale aumento del suo benessere socio-economico. Una persona in difficoltà psicologica rischia di perdere gli affetti, il lavoro, i soldi, la salute e di dover poi pagare un prezzo molto caro per recuperare tutte queste cose.
Le psicoterapie durano tanto.
Non necessariamente. Lo so che tanti, in ambito di percorso terapeutico e della sua lunghezza, avvertono come troppo vaga la parola “dipende” ma in effetti è così, d’altra parte come sarebbe possibile dare una scadenza precisa? Ci sono malattie fisiche per le quali bastano poche pastiglie per recuperare, per altre condizioni la farmacoterapia va seguita vita natural durante. Per la psiche può valere, bene o male, lo stesso discorso con la considerazione che difficilmente, anche in gravi casi psichiatrici, si assiste ad una psicoterapia che prosegue per tutta l’esistenza di un individuo. In realtà è il paziente a controllare la durata del percorso; in questo caso lo psicoterapeuta, che deve accettare comunque il libero arbitrio del paziente, può concordare oppure muovere un appunto circa il fatto che la terapia venga abbandonata troppo precocemente. Difficilmente un paziente, se inizia a vedere dei risultati, abbandona la terapia che finisce per durare un po’ di mesi con frequenza settimanale, per poi passare ad una frequenza quindicennale e poi ancora mensile; a quel punto il paziente ha sbloccato sufficienti risorse affiorate in terapia per metterle in pratica nella realtà, con notevole autonomia, e gli incontri mensili finiscono per fare il punto della situazione, come una barca che fosse stata da poco messa a punto e affrontasse il mare uscendo progressivamente sempre più al largo, finché non si sentisse pronta ad affrontare il suo lungo viaggio, abbandonando quindi il porto in cui aveva trovato rifugio dopo la tempesta che l’aveva fallata.
Faccio da solo o, se ho bisogno di parlare, parlo con un amico.
Come disse Cesare Musatti, uno dei padri della psicoterapia italiana: “Una pacca sulla spalla può essere terapeutica, ma non è psicoterapia”. Il buon senso, che (quasi) tutti abbiamo e che possiamo mettere a disposizione della conoscenza comune, non è la stessa cosa dell’introspezione che facilità una conoscenza personale (Ryan Howes). Il terapeuta è un soggetto con un bagaglio di conoscenze specifico e potenziato per l’ascolto degli altri, che non è uno scambio esattamente biunivoco come può essere quello di due amici che si parlano, ma è invece spostato a vantaggio del paziente il quale riceve un’attenzione mirata da parte del terapeuta che ovviamente non si aspetta di essere ascoltato in cambio della propria disponibilità all’ascolto. Oltre a questo, il dialogo con un terapeuta è coperto dal segreto professionale che garantisce all’assistito di poter dire tutto ciò che vuole senza il timore che le informazioni vengano diffuse. E poi il giudizio: quando parliamo con amici e conoscenti noi siamo sottoponibili al loro giudizio morale ed etico, il che spesso ci porta a non parlare in modo pienamente sincero; ciò non accade ovviamente in uno studio psicologico, dove le posizioni etiche e morali dello psicologo non devono essere messe in campo come strumento di giudizio rispetto al comportamento del paziente. Circa il “fare da soli”, mi sembra chiaro che tutti noi tentiamo in prima battuta di cavarcela da soli rispetto ai nostri problemi, tuttavia proviamo ad immaginare questa situazione. Dovendo aprire un barattolo di conserva, tentiamo da subito grandi sforzi cercando di far ruotare il tappo. Se ce la facciamo ad aprire il tappo da soli, benone. Se dopo una serie di sforzi pazzeschi che ci hanno marchiato il palmo delle mani non riusciamo ad aprire il barattolo, possiamo decidere due cose: o ci priviamo di ciò che avremmo voluto mangiare dicendoci magari che non è così importante, oppure chiediamo aiuto a qualcuno che possa impiegare più energia permettendoci di accedere al tanto desiderato cibo, in ciò sicuramente facilitato dai nostri primi sforzi che avevano iniziato ad allentare il tappo.
Quando si va dal terapeuta, si finisce per parlare male di genitori, coniugi o fidanzati.
La frase corretta è “Quando si va dal terapeuta si finisce per parlare di genitori, coniugi o fidanzati”. Non necessariamente male o, comunque, non se non ce n’è da parte del paziente la necessità. Se pur vero che molto del nostro presente dipende dal nostro passato e dalle persone che lo hanno abitato, il lavoro terapeutico deve poi svilupparsi sul modo di costruirsi un futuro migliore e quindi, personalmente, più che concentrarmi sul passato critico, mi soffermerei sulle prospettive future e sulle persone positive che finiranno per abitare un futuro migliore. La realtà dei fatti è che un soggetto in terapia è impegnato più che a criticare gli altri a porre in critica se stesso, e questo è il motivo che rende eventualmente impegnativo il percorso e questo è anche il motivo per cui tanti evitano la psicoterapia. Se lo studio di un terapeuta fosse il posto dove andare solamente a criticare gli altri … saremmo pieni zeppi di pazienti!
Il percorso psicologico è sempre un percorso doloroso.
No, mi verrebbe da dire invece che è proprio l’opposto. Sebbene si tocchino dei punti che possono sollecitare dolore emotivo, la finalità è sempre quella di una migliore qualità di vita ed è difficile che ciò sia compatibile con una condizione di disagio emotivo. Peraltro se le persone stessero sempre emotivamente male in terapia, finirebbero per evitarla. È invece vero che i pazienti continuano a venire in terapia perché stanno bene sia nello studio sia poi fuori. Non dico che io non abbia visto pazienti piangere o addolorarsi, ma di sicuro ho visto molti più sorrisi e tante volte anche risate di cuore. Ahimè, lo stereotipo comune (che è anche cinematografico e di altri media) dipinge gli incontri psicologici come dei crepuscolari incontri che non di rado trasmettono dei vissuti di noia o, peggio, dolore. Non è così, anzi mi azzardo a dire che se un paziente, dopo ogni incontro col professionista, si sente psicologicamente a disagio, qualcosa nell’agire professionista non va; può accadere che gli argomenti trattati in uno o più incontri possano addolorare o scuotere il paziente, ma ciò non può essere una costante.
Come fa uno psicologo a capirmi davvero se non ha vissuto ciò che ho vissuto io? Nessuno può capirmi se non chi ha condiviso le mie stesse esperienze.
Partiamo dal presupposto che un buon professionista v’indirizzerà da un altro professionista specificatamente qualificato se riconosce, in scienza e coscienza, che il problema postogli non incontra le proprie specifiche. Detto ciò, pensare che si debba aver fatto specifica esperienza del problema per poter aiutare una persona in una condizione specifica, è un limite: quanta fiducia avreste in uno psicologo che è stato, ad esempio, alcolista, o affetto da gioco d’azzardo patologico, o bipolare, o schizofrenico? In realtà l’idea che una persona che ha fatto la nostra stessa esperienza ci possa davvero aiutare, non si basa tanto sulla possibilità dell’aiuto ma piuttosto sull’accettazione e sull’evitamento del giudizio. Chi non è stato capito in passato, chiede principalmente di essere capito e quindi può pensare che chi lo capisca, perché ha lo stesso background, possa anche automaticamente aiutarlo. Non dico che ciò non sia vero in assoluto (penso ai gruppi di auto-aiuto), ma una visione distaccata, comunque addestrata ad accogliere i più diversi problemi, può essere facilitante per la risoluzione di una problematica psicologica, proprio perché può ecletticamente fare capo a diverse esperienze e concetti per sintetizzare procedimenti originali che più difficilmente vedono la luce in circuiti chiusi nei quali il proverbiale cane si morde la coda.
Allora come faccio a capire se sto andando da un bravo professionista?
Domanda lecita alla quale dispiace rispondere, perché idealmente tutti coloro che sono professionisti dovrebbero essere persone oneste, cosa che la cronaca a più riprese dimostra falsa. Sul concetto di “bravo” soprassiederei, ciò nel rispetto degli altri colleghi. Ognuno ha i propri strumenti e la propria formazione, alcuni lavorano meglio con alcuni soggetti piuttosto che altri (poiché la loro formazione li ha indirizzati a tali specifiche), sicuramente ci sono quelli più versati e quelli meno, però la conditio sine qua non, più che la bravura, è l’onestà. Il concetto di “bravo” infatti è connesso ai risultati ma anche alla “simpatia” del paziente per il terapeuta, mentre il concetto di “onesto” è qualcosa di più oggettivo. Sintetizzerei in punti dei fattori che devono funzionare come campanelli di allarme per coloro che stanno cercando seri professionisti della salute mentale e invece incappano in persone poco limpide. Prima di tutto, però, una precisazione:chiariamo le differenze fra psicologo, psicoterapeuta e psichiatra.
- Lo psicologo è un soggetto che ha conseguito una laurea quinquennale in psicologia e, dopo un periodo di tirocinio obbligatorio, ha superato l’esame di stato per l’abilitazione alla professione di psicologo. Egli, non essendo medico né psicoterapeuta, non può somministrare farmaci né operare con una psicoterapia.
- Lo psicoterapeuta è un medico o uno psicologo che ha conseguito una specializzazione quadriennale post-laurea in una scuola di psicoterapia riconosciuta dal MIUR.
- Lo psicoterapeuta, se non è medico, non può prescrivere farmaci.
Giacché siamo in argomento, specifichiamo che uno psicanalista è semplicemente un tipo di psicoterapeuta e quindi non tutti gli psicoterapeuti sono psicoanalisti. Lo psichiatra, invece, è un soggetto che ha studiato medicina, ha fatto un esame di stato abilitante la professione medica, e quindi ha affrontato e concluso la specializzazione in psichiatria; lo psichiatra, ovviamente, può prescrivere farmaci.
Uno psicologo che possa assistere pazienti a livello di colloqui deve essere presente nell’Albo degli psicologi della regione nella quale ha superato l’esame di stato. Chiedetegli in che albo è iscritto. Se non trovate il suo nome non va bene! Nello stesso albo è segnato anche se è uno psicoterapeuta. Un medico psicoterapeuta sarà registrato come tale nell’Albo dei Medici. Non fatevi imbambolare dagli attestati appesi al muro, cercate invece riscontri ufficiali. Se un soggetto esercita indebitamente la professione di psicologo compie reato.
Ci sono tanti approcci e metodiche in psicoterapia, però NESSUNA prevede l’uso di strumenti quali: tarocchi, pendolino, letture della mano, vendita di filtri, pozioni e tutto l'armamentario che fa capo al folklore e alla magia. NESSUNO psicologo, psicoterapeuta o psichiatra può mettervi in contatto con i defunti o con gli spiriti, sempre che qualcuno sia davvero in grado di farlo. Andare da un mago è una scelta soggettiva per quanto questionabile, ma se il mago dice anche di essere uno psicologo o professionista della salute mentale, denunciate l’accaduto.
Ci sono tanti approcci e metodiche in psicoterapia, però NESSUNA prevede la palpazione o l’esplorazione del corpo del paziente, anche previo permesso del paziente stesso. In questo caso siamo di fronte ad un abuso professionale o, peggio, sessuale. Se il “professionista” vi consiglia delle pratiche che concernono l’ambito sessuale (individuale o di coppia) egli deve poter documentare a che tipo di terapia stia facendo riferimento e che questa sia in qualche modo confortata da pubblicazioni scientifiche.
Un serio professionista non chiama a casa i pazienti che non si presentano agli appuntamenti minacciandoli del fatto che tale comportamento porterà ad un peggioramento delle loro condizioni. Può accertarsi del motivo dell’assenza (soprattutto se non preavvisata) o della motivazione del paziente alla terapia, ma non esercita pressioni indebite affinché il cliente frequenti il suo studio.
Un serio professionista non vi giudica, ovvero non fa prevalere il suo modello etico e morale sul vostro. Può farvi riflettere sui pro e contro dei vostri modelli, ma non vi deve dire cosa dovete fare o cosa dovete “diventare”, soprattutto non lo dice in forma direttiva o di comando. Un buon terapeuta lavora CON il vostro sistema di valori.